zoo de roma | By : heidiesse Category: Italian > Originals Views: 771 -:- Recommendations : 0 -:- Currently Reading : 0 |
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[6] "vola la tua testa calda come quella degli ostaggi di al qaida."
lisa amava vagare disinvolta per casa con indosso solamente uno striminzito slippino a perizoma, abilmente ricamato a mano, che le si incastrava prontamente tra le sode natiche bianchicce ad un passo sì ed uno no, sgraziatamente abbinato ad una logora cannotta chiazzata di sporco, che le nascondeva appena i tre quarti dello stretto addome scavato che si ritrovava. verso l’alba cominciava ad armeggiare dediziosa ai fornelli, mettendo tempestivamente a bollire, al flebile calore di una baluginante fiamma gassosa, dell’ottimo caffé corretto per l’incommensurabile gioia del vicinato guardone. mentre strisciavo le lucide palme appiccicaticce, degli scalzi piedi sudati, lungo le scheggiate asticelle sconnesse, della silenziosa cucina ancora immersa nel semibuio, alla cieca ricerca del mio insostituibile accendino a scatto, il consueto aroma caldo ed amaro della caffeina, mischiato a quello speziato e violento, caratteristico della grappa, non prese a stuzzicarmi allettante le narici, come d’abitudine. al suo posto un sentore pungente, eccessivamente salato ed acidulo, come di sardine in scatola, ammorbava la stanza. adocchiai la virile mano irsuta di g rovistare agognante tra le rigide cosce di lisa, imperlate di ardente sudore grondante, mentre l’inconfondibile protuberanza nodosa, della sua enorme nocca piegata, sporgeva presuntuosa attraverso il sottile reticolato in pizzo delle deliziose mutandine inzuppate. gli concedetti appena il tempo di penetrarla con irresistibile fervore, poi varcai repentino la soglia e mi accomodai su di una sghemba sedia scricchiolante, di quelle malamente attorniate alla spoglia tavolata incartapecorita, arraffando di getto il primo liso quotidiano sotto tiro ed immergendoci irosamente il viso dentro. quelli smisero all’istante di titillarsi. “niente caffé” appurai ad alta voce. in risposta, il labile tocco vezzoso di lisa mi venne incontro, intrecciandomi balzanamente l’umida e corta chioma arruffata tra le dita, scivolò poi lungo il mio magro collo proteso, solleticandomi il gargarozzo con delicati grattini d’intenerimento, quasi fossi uno abbietto animale da strada. il conturbante odore del suo seme le era ancora inconfondibilmente impresso sulla pelle ed io lo fiutai avidamente nell’aria, inspirando a pieni polmoni, non appena lei si allontanò in direzione del bagno. mentre infilavo una stropicciata banconota, arrotolata stretta, nella narice spaccata e tiravo rumorosamente sù la mia pista, fino all’ultimo impercettibile granello, assicurandomi appositamente di non lasciarne alcuno per g, questi tentò inaspettatamente di intavolare con me una dubbia conversazione a proposito della ragazza, alchè mi finsi troppo rincoglionito dalla botta per dargli corda. paradossalmente geloso di lei, mi abbandonai ad un lungo sospiro di sollievo non appena il discorso si spense pateticamente nel nulla. quando un tonfo sordo squarciò, improvvisamente, il tombale silenzio, riecheggiando cavernoso attraverso il sottosuolo, scorsi un fulmineo sciotto precipitarsi di getto verso l’oscuro ripostiglio celato in garage. con una delle mie migliori mannaie, prudentemente stretta tra le dita, non feci in tempo a dargli manforte che numerose grida di sprono mi giunsero ovattate attraverso lo stretto spiraglio scalfito della ridotta finestrella smontata, dirottando bruscamente la mia precedente destinazione. combriccole di stronzi in fuga con l’ibrido frutto avvizzito di maria, devotamente coltivato da sciotto, ben stretto tra le braccia spopolavano nel vicolo altrimenti deserto, alchè cacciai loro un collerico urlo d’assalto, scagliando impulsivamente la mia acuminata accetta nel mucchio. osservai la lama brillante fendere l’aria malsana del ghetto e rimbalzare metallicamente lungo lo scuro cemento sgretolato, evitando di pochi centimetri le punte sbucciate delle loro jordan coatte, prima di venire coinvolto in un’intimidatoria battaglia di insulti. “te spacco 'e gambe e poi ce sòno li tamburelli” ruggì il più mefitico di tutti. mentre lisa mi strattonava energicamente per impedirmelo, sporsi ancor più il livido volto furente oltre il sottile confine sgangherato del cornicione, riesumando un disgustoso grumo di muco giallastro tra le pareti gengivali, indirizzai il mio espettorato oltre l’architrave, imbrattando, così, il meschino grugno grottesco del mio interlocutore con compatta saliva schiumosa. non appena la sua mano grassoccia impugnò, inaspettatamente, un’impeccabilmente lustrata calibro nove, percepii il mio stomaco scrollarsi insensibilmente di dosso le ingombranti membra sanguinolente delle budella e guizzarmi tempestivamente lungo l’arida gola increspata, individuando, inorridito, lo stretto mirino inconfondibilmente puntato in direzione della mia madida fronte ed il proiettile cavo sfrecciare indisturbato luogo la rettilinea traiettoria, sfiorandomi lancinante lo smunto cipiglio impietrito. mi ritrovai malamente scaraventato al gelido suolo, con gli occhi atrocemente sbarrati e le orecchie ancora fastidiosamente fischianti, per l’agghiacciante urlo di lisa, distinsi confusamente le scheletriche braccia da ragno di quest’ultima ancora morbosamente avviluppate attorno ad uno dei miei ed i suoi scuri occhi folli, i quali mi spinsero a tastarmi paurosamente il capo, saettare verso un punto imprecisato oltre la mia testa, in prossimità del peggio. contemplai, esterrefatto, la minuscola pallottola fumante ardere ancora per il brusco impatto, assurdamente conficcata nella rigida superficie deforme del cappelletto a visiera che avevo indosso, ad un misero palmo dal mio naso. “vammorìammazzato” biascicai esangue.
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